Cerco di unire conpetenze musicali, artistiche e militanza queer.
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È da giorni che mi pongo una domanda: ma quanto siamo coglioni noi italiani? Facciamo di un indirizzo di partito e ideologia politica la morte di migliaia di persone, ma soprattutto bambini. Siamo capaci di litigare per un fatto che dovrebbe unirci, e non separarci, solo perché il nostro partito di appartenenza ha deciso che non dobbiamo essere a favore di uno, o contro un altro. Questo significa bendarsi gli occhi ed essere sordi al dolore, che nel 2025 — sì, l’era delle grandi conquiste tecnologiche — è anche l’era delle grandi regressioni intellettuali, etiche e morali.
Ormai la morte sta diventando un affare di clan, di famiglie mafiose. Siamo a favore o contro una linea solo perché lo ha detto il segretario del partito. Nessuno riesce a guardare oltre, oltre l’appartenenza e la militanza. Quello che sta accadendo è pura barbarie, atrocità che ci stanno segnando e che stanno rendendo la nostra epoca tra le più oscure che l’umanità ricordi.
Forse mi sto riempiendo la bocca di frasi fatte e di retorica, ma io non ci sto e mi estraneo da questo volersi distruggere a tutti i costi. Alcuni antropologi, a metà del ‘900, hanno dipinto l’evoluzione dell’umanità come Piaget catalogava la fase di apprendimento dell’essere umano. Beh, per me siamo ancora nella fase in cui non riusciamo ad alzare il collo da soli, praticamente siamo ancora nei primi giorni di vita. Ci piace pensare che noi esseri umani siamo quasi una civiltà di tipo 1 sulla scala di Kardashev, quanto in realtà ripudiamo il prossimo. Per diventare così potenti la diversità non si ripudia, la si abbraccia. Siamo in un medioevo tecnologico, dove le nostre credenze ci dividono, litighiamo e ci uccidiamo per un metro² di terreno, senza pensare che, se quel terreno lo coltivassimo insieme, potremmo raddoppiare la produttività. Per diventare più evoluti c’è bisogno di condivisione, di cooperazione, e non di uccidersi a vicenda.
Dalla mia estraniazione dal mondo e dal mio essere eremita, noto che siamo ancora tutti guelfi o ghibellini. Non esiste un “noi”, esiste la fazione — esattamente come avviene nell’universo Divergent di Veronica Roth: la fazione prima del sangue. Ma questa visione tribale che abbiamo di noi stessi non ci aiuta a progredire, sia dal punto di vista umano che personale. Dove potremmo arrivare se abbracciassimo il diverso? Ma senza un nemico non siamo capaci di esistere. Platone, nel mito della caverna, descrive con incredibile attualità l’essere umano: anche messi davanti al fatto compiuto, alla cruda realtà, non crediamo e continuiamo ad andare avanti ottusi e ignoranti.
L’antropologia nasce da un bisogno di spiegare “l’uomo” dal punto di vista culturale, evoluzionistico e sociologico. Tra mille anni, quando la nostra civiltà sarà esaminata dai ricercatori umanistici, cosa vedranno? Vedranno un essere umano che fugge dai problemi e dalla realtà in nome degli interessi politici, ma soprattutto economici. Tra circa 40 generazioni, noi saremo visti come gli antenati schizofrenici che hanno messo a repentaglio l’intera esistenza. Con guerre, sterminio di massa, e con il genocidio ambientale. Molti parleranno di come ci sia stata molta biodiversità nella nostra era, ma che purtroppo non siamo stati capaci di preservare e mantenere.
Ci giudicheremmo così come noi giudichiamo oggi la caccia alle streghe, l’uso del gas nervino nella prima guerra mondiale, l’olocausto nella seconda, l’uso della bomba atomica, l’uso del napalm in Vietnam, le fosse comuni dell’ex Jugoslavia e la caduta delle Torri Gemelle. Per quanto questi fatti siano atrocità perpetrate, sono fatti localizzati, che coinvolgono — dinnanzi alla moltitudine di abitanti del pianeta — una parte circoscritta. Mentre ora, nell’era della globalizzazione, in una filosofia del consumismo sfrenato, il problema non è di una piccola parte di noi, ma il danno che stiamo arrecando si estende all’intera esistenza del pianeta.
Quando siamo malati, prendiamo le medicine: antibiotici se abbiamo un’infezione batterica, e antivirali se attribuita a un virus. La domanda è: qual è la cura per il pianeta? Potrei sembrare cinico, ma in questo momento, da quello che vedo, l’unica cura è l’estinzione dell’umanità. Il pianeta esisteva prima di noi e continuerà ad esistere dopo, generando sempre nuova vita, finché il Sole glielo concederà.
Se l’umanità ha una possibilità, non verrà dai leader o dai segretari di partito. Verrà da chi ha la forza di uscire dalle caverne, guardare in faccia l’abisso, e tornare non per portare risposte facili, ma per urlare, con tutta l’onestà spaventata, ciò che ha visto e vissuto.
Amo tutto ciò che dà voce all’invisibile. La musica è la mia pelle che vibra, la poesia è il mio respiro trasformato in parole, il teatro è la mia verità nuda che sale sul palco. Scrivere non è un passatempo: è un modo per esistere. Compongo canzoni, creo personaggi, costruisco mondi — e in ognuno di questi mondi c’è una parte di me che non voleva più tacere. Amo il gaming non solo per giocare, ma per esplorare, comprendere, immergermi in universi paralleli che spesso raccontano più del nostro. Amo cucinare, perché anche una ricetta può essere un atto d'amore e di resistenza. Amo la filosofia, l'antropologia, le scienze umane. Cerco di capire l’essere umano perché ho passato la vita a cercare di capire me stesso. E amo ciò che è queer: non solo nel senso identitario, ma come forma di rottura, di rivolta, di poesia sporca e meravigliosa contro l’omologazione. Non mi piacciono le definizioni, ma se dovessi sceglierne una, direi questo:
Sono una voce che cerca casa tra le crepe del mondo.
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